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Regia

Robelin Stéphane

Titolo

E se vivessimo tutti insieme?
Con: Guy Bedos, Daniel Brühl, Geraldine Chaplin, Claude Rich, Jane Fonda
Francia, Germania, 2011, min.96

E se vivessimo tutti insieme?

Un gruppo di ultrasettantenni va a vivere in una sorta di comune in cui si passano in rassegna molti temi dell’età, tra cui quelli dell’emotività e della sessualità.

Il regista Robelin, anche sceneggiatore, riesce a tenere il racconto in equilibrio tra dramma e commedia, con momenti sinceramente divertenti e numerosi spunti di riflessione. Il brusco richiamo alla realtà, con la dipartita di uno dei cinque coabitanti, viene trattato con delicata leggerezza. Quasi un lieto fine.

I temi di riflessione che si incontrano guardando questo film sono talmente numerosi che tentare di affrontarli tutti significherebbe farne un catalogo noioso, forse indigesto. Vale la pena allora soffermarsi su alcuni solamente, raccomandando allo spettatore di non interpretare la scelta come una graduatoria di merito, ma piuttosto come un  invito a non lasciarsi sfuggire tutti gli altri.

E se andassimo a vivere tutti insieme, dunque. E’ il titolo del film ma è anche l’aspirazione segreta di chissà quante persone che arrivano a formulare questa ipotesi quando ormai è tardi, e non c’è più né il modo né il tempo di metterlo in pratica, un simile progetto. Si vive l’età adulta sbadatamente, continuando a far progetti come se la forza per realizzarli e il tempo necessario fossero infiniti.

Dove vivremo, da vecchi, con chi? Chi ci pensa mai? Spesso è una disgrazia, o un infortunio o una malattia il campanello che suona l’allarme del tempo. Che non è infinito, che è troppo poco; e poi mancano i mezzi e l’energia per ristrutturare i nostri piani in previsione dell’ultima tappa, quella del declino.

Dice Jeanne, all’inizio del film, “Che strano, siamo previdenti, assicuriamo la casa, assicuriamo la macchina, assicuriamo addirittura la vita e non ci preoccupiamo mai di quello che faremo nei nostri ultimi anni”.

E’ proprio così: il giovanilismo incosciente, la rimozione di tutto quanto sa di decadenza, ci portano impreparati, talvolta addirittura stupefatti ma anche rancorosi, alla soglia di una nuova età: che, con l’allungarsi della vita, può essere anche bella lunga. Allora sarà solitudine; nel migliore dei casi sarà vicinanza a un figlio che non sappiamo quanto sia motivato a prendersi cura di noi; nel peggiore sarà una casa di riposo che – quando, ma è rarissimo, non viene scelta consapevolmente – sarà vissuta come un vero e proprio scacco esistenziale.

La proposta del film (due coppie e uno scapolo che decidono di vivere insieme) sembra  suggerire che le scelte giuste vanno pensate per tempo, proprio come un’assicurazione, che viene decisa con anticipo, in previsione di un evento che potrebbe verificarsi. Siamo amici, stiamo bene insieme: perché non dovremmo pensare di mettere in comune le nostre solitudini per verificare se ne può sortire una comunità vivibile? Un vantaggio rispetto all’istituto è assicurato. Nella grande struttura sei un numero, la promiscuità è coatta; si deve condividere la tavola, quasi sempre anche la camera, con uno sconosciuto. A casa dei nostri cinque protagonisti, invece, la promiscuità, che creerà comunque qualche piccolo problema, è il frutto di una scelta che ha le sue radici nell’amicizia. In questo modo, secondo il film, verranno superate anche tensioni che, vivendo separati, sarebbero insormontabili. Casualmente, rovistando in un vecchio baule, saltano fuori alcune lettere, dalle quali i due mariti vengono a saper che quarant’anni prima le due donne ebbero entrambe una relazione con Claude, lo scapolo dei cinque conviventi.

Dolore silenzioso di uno, momenti di collera dell’altro, ma poi tutto si quieta. Siamo amici, stiamo bene insieme, sono passati quarant’anni, come si fa? Una soluzione, che ad un giovane appare inverosimile, trova invece accoglienza nella logica di  chi, invecchiando, ha imparato giorno per giorno che volersi bene non vuol dire essere perfetti. E neppure infallibili: se per puro orgoglio dobbiamo separarci, no,  meglio stringerci nella riconciliazione e berci su una coppa di spumante.

Un altro spunto, uno dei tanti che merita una nota, è offerto dal rapporto con un giovane etnologo che, invece di studiare la cultura degli aborigeni australiani com’era nei suoi progetti, si fa assumere per portare a spasso il cane di Albert, uno dei cinque, quando questi va fuori di testa. Il giovanotto si integra, per studiarla, nella piccola comunità di vecchi e finisce per farne parte a pieno titolo. Stringe un’amicizia particolare con Jane Fonda, talmente bella, ancora, che non ci scandalizza il fatto che potrebbe essere sua nonna. Interpreta il personaggio di Jeanne, condannata ad andarsene a breve e, per questo, tanto più attaccata al ragazzo, che è la vita. Si sente male, lui la abbraccia e per un attimo abbiamo la sensazione che la giovinezza di lui la guarirà.

Se ne va, invece, in una bara rosa (mentre gli altri brindano come a una festa) lasciando detto “Non piangete troppo, ho vissuto bene, e per farmi contenta bevete champagne. Andatevene soltanto prima che mi sotterrino”.

E’ sera, il marito la cerca. E’ confuso, la memoria lo ha abbandonato. Esce in  strada chiamandola “Jeanne, Jeanne….” Ad uno ad un o gli altri membri della comune si alzano e lo seguono per strada “Jeanne, Jeanne….”.  Come un coro, come un’implorazione.

Come dire che ciascuno di noi, andandosene, può lasciare un rimpianto. Tocca a noi lavorarci, prima, quando c’è ancora tempo.

(Sintesi redatta da: Fausto Melloni)


(Fonte: )

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